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L’Antartide in solitaria: Henry Worsley

Seguire le orme dei propri eroi può essere un obiettivo sorprendente, ma per l’esploratore antartico Henry Worsley, il suo sogno di attraversare l’Antartide completamente da solo è finito in tragedia. Ispirato dagli esploratori incredibilmente tenaci, competitivi e testardi dei primi anni del 1900, la spedizione Worsley Antarctic del 2015 è stata un tentativo di ricreare un viaggio fatto da Ernest Shackleton, cent’anni prima, ma mai portato a termine. Purtroppo, Worsley ha subito un destino simile.

Worsley aveva familiarità con l’Antartide, avendo già ricreato diverse spedizioni fatte dai suoi eroi, negli anni precedenti. L’itinerario di Henry Worsley si estendeva dal Polo Sud fino alla riva opposta del continente. Anche se Henry Worsley era un esploratore di grande esperienza, le temperature estreme dell’Antartide, i venti pericolosi e l’atmosfera inquietante generale si rivelarono invincibili. Il tentativo di Worsley di realizzare un sogno pericoloso finì in tragedia, simile alle avventure intraprese da viaggiatori come Robert Scott o Christopher McCandless. Il funerale di Henry Worsley è stato un giorno triste per la comunità di esploratori, ma i selfie e il diario audio che ha lasciato raccontano una storia incredibile.

Ha programmato di viaggiare per più di 900 miglia, con una media di 13 ore al giorno per attraversare il continente

Nel novembre del 2015, Henry Worsley ha iniziato il suo viaggio dall’isola di Berkner nella parte nord-occidentale dell’Antartide. Aveva in programma di completare il suo viaggio in 75 giorni, dal Polo Sud sino al lato opposto dell’Antartide. Il suo percorso lo avrebbe portato a più di 1.000 miglia da dove aveva iniziato. Worsley aveva programmato di camminare mediamente per 13 ore al giorno, portando con sé le sue scorte per tutto il tempo.

Raggiunse il Polo Sud nel giorno 51 del suo viaggio. Le prime persone che vide dopo molto tempo erano quelle che vivevano all’Amundsen-Scott South Pole Station, una struttura di ricerca che studia la geofisica delle regioni polari della Terra. Poiché era intento a fare un viaggio da solista, Worsley rifiutò le loro offerte di provviste e cibo. Proseguì, salendo a 9.700 piedi sulla Cupola del Titano pochi giorni dopo. Durante il suo viaggio, Worsley registrava un diario audio e scattava selfie, immagini che mostrano chiaramente la sua crescente stanchezza e il deterioramento della sua salute.

Non poteva portar con se abbastanza cibo per compensare la quantità massiccia di calorie bruciate

Worsley portò cibo a sufficienza per 80 giorni, cinque giorni in più di quanto pensasse che il viaggio avrebbe richiesto. Si aspettava di perdere circa 12 kg durante il suo viaggio, dal momento che camminare mentre si tira una slitta che pesa quasi 150 kg richiede molta energia. Poteva bruciare fino a 10.000 calorie in un solo giorno ma trasportare abbastanza cibo per non dimagrire così eccessivamente, sarebbe stato impossibile. Inoltre, il cibo di Worsley con il passare del tempo, si congelò a causa dalle temperature gelide dell’Antartide, e il povero esploratore lo constatò personalmente proprio addentando uno snack congelato che gli costò la rottura di un dente.

Nei diari audio di Worsley si faceva chiaro riferimento al cibo, e parlava specificamente di quanto gli mancasse consumare del cibo spazzatura: nel suo ultimo diario audio disse che la prima cosa che avrebbe fatto una volta tornato a casa, era quella di gustarsi una tazza di thè e una fetta di torta. Quando Worsley fu salvato, aveva perso quasi 50 kg e soffriva di disidratazione ed esaurimento.

Il viaggio di Worsley fu reso difficile da neve soffice, temperature estremamente fredde e venti terribilmente forti

L’avventura di Worsley iniziò abbastanza discretamente – la neve era uniforme e ferma, il che rendeva relativamente facile camminare lungo il percorso prefissato. Tuttavia, la temperatura iniziò a calare mentre si avventurava nell’entroterra, e la superficie della neve diventava sempre più pesante. Durante il giorno 55, Henry Worsley sul suo diario appuntò la registrazione di temperature gelide sino a meno 47 gradi Fahrenheit e parlava di venti che soffiavano da 40 a 50 miglia all’ora. Il giorno 66, fu quello in cui esprimeva a chiare lettere l’inesorabile fatica: “La crudeltà … la neve è molto tenera, ora sono sempre più debole ed è l’ultima cosa di cui avevo bisogno.” E incitandosi in terza persona: “Worsley, sbrina quella poca energia che ti rimane.”

Worsley fu colpito da una grave infezione, che lo portò alla morte

Dopo che Henry Worsley contattò la sua squadra di supporto per salvarlo, fu portato in aereo in un campo a sei ore di distanza e poi a Punta Arenas, in Cile. I medici inizialmente credevano che Worsley fosse malato a causa della disidratazione e dell’esaurimento, ma successivamente scoprirono che soffriva di peritonite batterica, una grave infezione dell’addome. Sebbene i medici tentarono un intervento chirurgico, il corpo di Worsley era troppo debole per combattere l’infezione e il 25 gennaio 2016 all’età di 55 anni venne dichiarato morto.

L’avventura di Henry Worsley si concluse così a soli 30 miglia dal completamento del suo viaggio programmato. Un ex membro del British Antarctic Survey dichiarò che nonostante quasi prossimo alla meta, Worsley pensò bene di prendere la giusta decisione ritirarsi, aggiungendo: “Ha fatto una cosa intelligente, ma purtroppo il suo sistema immunitario è stato deteriorato così tanto che non è riuscito a recuperare”.

Worsley fu costretto a dire fine alla sua avventura a soli 30 miglia dalla meta

Henry Worsley percorse eroicamente da solo l’Antartide per più di 900 miglia, cambiando la biancheria intima una sola volta. Sfortunatamente, dopo più di 65 giorni di viaggio nella terra più inospitale del mondo, fu costretto a fermarsi a 30 miglia dal suo obiettivo. Il ritmo di Worsley divenne sempre più lento negli ultimi giorni del suo viaggio, causa dell’inesorabile stanchezza, ma soprattutto dall’avanzare dell’infezione di cui non era a conoscenza.

Tenne testa addirittura ad una tempesta che causò la morte di una colonia di pinguini, proteggendosi per due giorni interi all’interno della sua tenda. La squadra di soccorso che monitorava i suoi progressi si preparò al suo recupero, ma si rifiutò di intervenire fino a quando Worsley non diede il segnale. Alla fine, contattò il suo team di supporto sapendo che era troppo stanco per viaggiare oltre, e fu soccorso.

Il viaggio di Worsley, portò introiti che furono devoluti in beneficenza al fondo Endeavour

Henry Worsley era un veterano dell’esercito britannico e aveva un grande rispetto per i suoi commilitoni. Era anche amico del Duca di Cambridge, che contribuì a finanziare il secondo viaggio di Worsley in Antartide. Nell’ultima visita al continente ghiacciato, Worsley intendeva raccogliere fondi per “The Endeavour Fund”, gestito dal Duca e dalla Duchessa di Cambridge, così come dal principe Harry. Worsley scelse di sostenere la fondazione a causa del suo rapporto amichevole con il duca. Sebbene non sia stato in grado di completare il suo viaggio, Worsley ha raccolto più di $150.000, cifra che si raddoppiò non appena le donazioni furono versate dopo la notizia della sua tragica scomparsa.

I primi esploratori dell’Antartide, legati da uno stesso destino

Dal momento che nessuna nave ha mai viaggiato abbastanza vicino, gli esploratori non hanno scoperto l’Antartide fino al 1820 circa. Robert Falcon Scott fece il primo tentativo di raggiungere il Polo Sud nel 1901 con l’esploratore Ernest Shackleton, ma non riuscirono mai a raggiungerlo. Shackleton tornò nel 1907, ma, ancora una volta, fu costretto a fermarsi a 97 miglia dal suo obiettivo. Scott tornò diversi anni dopo, ma morì anche lui prima che venisse tratto in salvo. Shackleton ritornò nel 1915 tentando nuovamente di attraversare il continente, che è inoltre la stessa avventura che Worsley stava tentando di replicare quando morì.

Il viaggio sfortunato non fu il primo viaggio di Worsley in Antartide

Henry Worsley eseguì il suo primo viaggio in Antartide nel 2008, conducendo una squadra il cui obiettivo era quello di ripercorrere il secondo tentativo di Ernest Shackleton, ovvero quello di raggiungere il Polo Sud durante la sua spedizione Nimrod del 1907. Shackleton con il suo gruppo al seguito percorsero 97 miglia, quando la mancanza di cibo e il maltempo li costrinse a rinunciare e a ritirarsi. La squadra di Worsley seguì il percorso di Shackleton attraverso le Montagne Transantartiche attraverso il ghiacciaio Beardmore, e completò ciò che Shackleton non riuscì raggiungendo il Polo Sud. Nel 2011, Worsley tornò in Antartide con una squadra di sei membri con lo scopo di percorrere un percorso dalla Baia delle Balene attraverso la piattaforma di ghiaccio di Ross.

La lontana parente di Henry Worsley viaggiò in Antartide con Ernest Shackleton

Worsley aveva buone ragioni per essere ossessionato dagli esploratori artici come Ernest Shackleton; era infatti un lontano parente di Frank Worsley, che aveva viaggiato con Shackleton nel suo viaggio del 1914. L’anziano Worsley era skipper dell’Endurance, che venne usato durante una spedizione antartica in cui Shackleton progettava di attraversare il continente a piedi. L’Endurance rimase bloccato nel ghiaccio prima di raggiungere la terra ferma, e affondò, lasciando i 28 membri dell’equipaggio in condizioni estremamente difficili. Shackleton, Worsley e altri andarono a cercare aiuto, viaggiando per 800 miglia su terra e mare. Henry Worsley fu stupito di storie di straordinaria avventura e sopravvivenza. Nel suo ultimo viaggio in Antartide, tentò di finire ciò che Shackleton non potè concludere nella sua spedizione Endurance.

Worsley fu il primo a cercare di attraversare l’Antartide con rifornimenti a bordo

Henry Worsley stava tentando di attraversare l’Antartide completamente da solo e senza assistenza. Sebbene sia stato il primo a tentare l’impresa, altre persone hanno compiuto incredibili sfide in Antartide. Nel 1997, l’avventuriero norvegese Borge Ousland tentò la prima spedizione in solitaria per il continente, ma piuttosto che camminare, usò un aquilone parafoil.

Anche l’esploratrice britannica Felicity Aston completò con successo un viaggio nel 2012. Attraversò l’Antartide viaggiando da sola, ma dispose prima scorte di rifornimento lungo il percorso, così da non trasportare troppo materiale che l’appesantisse ulteriormente. Il tentativo di Worsely fu diverso dagli altri poichè portava con sé tutto il necessario per l’intero viaggio, tirando fisicamente una slitta su cui vi era la sua tenda, il cibo e altre attrezzature necessarie per tutto il tempo.

Oltre ad essere follemente freddo, l’Antartide ha molti pericoli come venti forti e crepacci mortali nascosti

Ci sono molte ragioni per cui l’Antartide è considerato uno dei luoghi più inospitali della Terra e un’area estremamente pericolosa in cui viaggiare da soli . La maggior parte delle persone sa che il continente è il posto più freddo del pianeta, ma l’Antartide è anche il più arido e il più ventoso. Le montagne transantartiche si trovano nella parte occidentale del continente e il percorso intrapreso da Worsley le attraversava. I venti che raggiungono fino a 200 miglia all’ora possono essere mortali perché causano condizioni di oscuramento. Inoltre è facile incontrare crepacci profondi nascosti da una piccole quantità di neve, che possono rivelarsi fatali. Ci sono ottime ragioni per cui nessun essere umano vive in modo permanente in Antartide.

Alla sua morte, Worsley divenne un eroe nazionale in tutta l’Inghilterra

Molte persone furono devastate dalla notizia della tragica morte di Henry Worsley, a prescindere se lo avessero conosciuto personalmente o meno. La nipote di Ernest Shackleton, sottolineò la sua morte come una grande perdita per la comunità avventurosa. Il duca di Cambridge e il principe Harry, che contribuirono a organizzare l’organizzazione benefica per la quale Worsley stava raccogliendo denaro, lo definirono fonte di ispirazione e come un personaggio pieno di coraggio. Il principe William, così come il capo dell’esercito britannico, espressero tutta la loro tristezza. Paul Rose, ex comandante di base del British Antarctic Survey, elogiò Worsley per aver riflettuto sulla sua avventura prima di partire e per il buon senso che ebbe nel contattare la sua squadra di soccorso prima che le cose diventassero ancora più pericolose. Persino David Beckham, che una volta incontrò Worsley durante una raccolta di fondi, si fece avanti per esprimere dispiacere verso la sua scomparsa.

Il Tourniquet: il salvavita del combattente.


Premessa

Tra tutte le cause di morte che si registrano in una qualunque spedizione di combattimento, quella con la percentuale più alta è quasi sempre dovuta per emorragie di tipo massivo.

Ogni buon operatore, prima di intraprendere la strada che lo porterà ad affrontare ardue prove, dovrebbe essere formato opportunamente sulle tecniche principali di primo soccorso tattico in combattimento: Tactical Combat Casualty Care (TCCC) o Combat Trauma First Aid (CTFA).

Ciò che l’operatore andrà ad apprendere, garantirà a lui e all’intero team la capacità di saper attuare un intervento di soccorso immediato, prima che giungano i soccorsi qualificati.

Da un punto di vista psicologico, risulta estremamente positivo, essere a conoscenza che un tuo collega sarà in grado di soccorerti correttamente in caso di disperato bisogno.

Rivolgendo lo sguardo nuovamente alle emorragie, si è a conoscenza che la maggior parte dei protocolli di soccorso, prevedono il tamponamento compressivo, come primo intervento da applicare sulla ferita. C’è da sottolineare però come questo metodo non sia sempre efficace, basti ad esempio pensare nel caso in cui qualcuno avesse bisogno durante l’attacco del fuoco nemico, o peggio ancora se fossero più persone contemporaneamente a necessitare di un intervento di primo soccorso.

Il Tourniqet

È proprio in queste circostanze che occorrerebbe avere a portata di mano il (Combat Application Tourniquet), chiamato abbreviatamente CAT.

Scopriamo insieme cos’è e come si utilizza.

Il CAT, in parole povere non è altro che un sistema emostatico capace di essere applicato rapidamente, sistema capace di garantire al combattente ferito una vera e propria ancora di salvezza per la propria vita. Questo speciale laccio emostatico, è un elemento fondamentale che mai dovrebbe mancare nel kit a portata di mano di un qualsiasi operatore.

Dopo aver descritto cos’è il Combat Application Tourniquet, andiamo a scoprire come si utilizza.
Come prima cosa, è importante sapere che il CAT deve essere utilizzato solo ed esclusivamente in casi veramente estremi. Questo speciale laccio emostatico, garantisce l’emostasi, applicandolo nel punto esatto della ferita, ma arrestando completamente il circolo del sangue dal punto in cui applicato, il ferito sarà a rischio ischemia, in quanto i tessuti circostanti riceveranno da quel momento in poi minor afflusso di sangue.
Per questo motivo, è fondamentale sapere che il Tourniquet potrà essere tenuto dal ferito, per un tempo massimo inferiore alle due ore e che quest’ultimo dovrà essere rimosso solo ed esclusivamente dal personale medico qualificato.

Vista l’estrema importanza del Tourniquet ed essendo un dispositivo di autosoccorso, è fondamentale ricordare di posizionare questo oggetto in una posizione comoda e di facile reperibilità. È consigliato tenerlo all’interno di una tasca anteriore del giubino (combat jacket), oppure in un punto dello zaino a spalla, purchè questo sia estremamente facile da raggiungere da ambo le mani.

Lo scopo di questo articolo in generale, serve a far conoscere alcune importanti nozioni per mettere in atto un intervento di soccorso corretto e nello stesso tempo qualificato, è importante specificare però che certe tecniche non possano essere apprese tramite web e che sarà necessario frequentare appositi corsi per esser davvero pronti ad attuare un soccorso di portata simile.

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Il più antico amo da pesca

Circa sette anni fa precisamente nel 2011, gli archeologi della Australian National University, sono riusciti a dimostrare attraverso mirate scoperte, le forme più antiche di pesca mai esistite. Addirittura sin dai tempi della preistoria, i nostri antenati praticavano pesca d’alto mare, riuscendo a catturare tonni ed altre specie di grossi pesci.

Una squadra di archeologi con a capo la professoressa Sue O’Connor, ha addirittura portato alla luce, il più antico amo da pesca, rinvenuto all’interno della caverna di Jerimalai, precisamente a Timor Est.
Da questa scoperta, si è giunti alla conclusione che gli antichi pescatori (esisititi circa 20 o addirittura 30.000 anni fa), conoscevano tecniche avanzate di marineria, tanto da renderli capaci di pescare a km dalla riva.

Celebre, fu il pensiero espresso da un vecchio archeologo, il quale dichiarava di aver rinvenuto un amo da pesca costruito da una conchiglia. L’amo faceva riferimento ad un periodo distante ormai 23.000 anni, aggiungendo inoltre come i nostri antenati fossero astuti a realizzare artificiosi strumenti oltre che per la caccia, anche nella pesca. L’archeologo concluse dicendo che probabilmente furono costruiti altri tipi di ami, oltre a quello scoperto.

Considerando il fatto che alcuni uomini del Pleistocene raggiunsero l’Australia circa 50.000 anni fa, lascia ben immaginare come questi fossero colmi di conoscenze, tanto da farli pescare a grossissime profondità nel mare.
Circa 100.000 anni fa, diversi esseri umani raccoglievono crostacei e conchiglie che risiedevano sul fondo dei mari, dove l’acqua era bassa. Prima di allora, i più antichi strumenti di attrezzatura marina, facevano riferimento ad un periodo che non superava i 12.000 anni fa.
Si è anche a conoscenza che, il più antico amo mai scoperto prima (oltre a quello di Timor Est), risalga a circa 5.500 anni addietro.

Prima di questa scoperta, già nelle caverne di Blombos (in Sud Africa), furono ritrovati un numero elevatissimo di ossa di pesce. Questi facevano riferimento ad esemplari che vivevano in acque del mare non eccessivamente profonde, ma stiamo comunque parlando di circa 140-150.000 anni fa, questo fa ben capire le profonde conoscenze marine che possedavano gli uomini già a quel tempo. C’è da aggiungere però che la cattura di questi pesci, richiedeva senz’altro un livello di tecnologia, ben più facile rispetto a quello utilizzato a Timor Est.

La scoperta rivenuta a Timor Est, ha mostrato agli occhi di tutti gli esperti, quanto ingegnosi e preparati fossero gli antenati del Sud-Est Asiatico. Gente capace di catturare già a quell’epoca, esemplari di pesci difficili ancora oggi da pescare, tra tutti i tonni.
Ciò fa immaginare quanto affascinante possa esser stata questa scoperta.

Non si è mai giunti alla conclusione, come la gente di Jerimalai riuscisse a pescare alcuni pesci pelagici o quelli che vivevano ad acque basse. Diverso invece, il discorso sul tonno. Pesci del genere potevano esser catturati solo attraverso la realizzazione di grossi ami o attraverso la tecnica delle reti. In entrambi i casi, si resta ancora stupefatti nel realizzare come già a quell’epoca si fosse a conoscenza di tecniche che utilizziamo ancora noi oggi a distanza di circa 100.000 anni fa.

La professoressa, Sandra Bowler, della University of Western Australia, giudica le capacità degli uomini di Timor Est, come ben consolidate. A fargli eco, il professor Ian McNiver, che giudica questa clamorosa scoperta come “Nulla di simile al mondo”.

Molto importante da sottolineare comunque, come il livello del mare si sia alzato oggi di circa 60-70 metri rispetto a circa 40.000 anni fa. Questo fa purtroppo pensare come diversi altri centri di pesca del Pleistocene, siano andati persi, sommersi dalle profondità marine.

Tra tutti gli ami da pesca dell’antichità rinvenuti, quelli che appaiono di più difficile realizzazione restano quelli in conchiglia. Quest’ultimi restano i più simili a quelli ancora oggi utilizzati, ma lasciamo a voi pensare quanto difficili fossero da costruire, utilizzando strumenti primitivi, come ad esempio il trapano ad arco.

Fiori di Bach: la Clematis Vitalba, Ranuncolacee

Tutto sulla Clematis Vitalba pianta spontanea e commestibile

Oggi vorrei parlavi della Clematis Vitalba, una pianta molto comune e tipica del
nostro territorio.
Iniziamo subito col dire che fa parte della famiglia delle Ranuncolacee e che in
passato era molto conosciuta per le sue proprietà officinali che venivano sfruttate da
esperti farmacisti poiché in determinate dosi risulta essere tossica e vescicatoria.
Vediamo nello specifico le sue proprietà, la conformazione e come poterla utilizzare.

Come è fatta la Clematis Vitalba?

E’ un arbusto perenne con portamento rampicante, i suoi rizomi possono arrivare fino
a 12 metri di lunghezza. Per la sua rapida crescita e facile propagazione viene definita
infestante poiché soffoca la vegetazione arborea circostante. Come dicevamo, è una
pianta molto comune nel nostro territorio, la possiamo trovare fino a 1300 mt in terre
incolte, boschi di latifoglie e macchie temperate ma anche ai margini di fossati e
torrenti.
Il suo fusto legnoso è ricoperto da una leggera peluria mentre le foglie a forma
lanceolata sono un po’ dentate e irregolari.
La fioritura va da Maggio a Luglio e i suoi fiori sono a sepali petaloidi giallognoli o
bianco verdastri e sono profumati, riuniti in pannocchie.
I frutti sono acheni con coda piumosa.
Le parti commestibili della Vitalba sono i germogli detti “Vitalbini” e le piccole
foglie giovani ed il periodo migliore per la raccolta è la primavera quando la pianta
ancora non è pericolosa. Infatti è nel periodo più caldo che produce quei principi
attivi che sono maggiormente pericolosi.

Clematis Vitalba in Facade Greening: Fassadengruen

Perchè la clematis Vitalba è pericolosa?

Usiamo questo termine perché i principi attivi della Clematis Vitalba sono alcaloidi
vegetali, come la Coprotoanemonina, che è una sostanza volatile, irritante che
mediante essiccazione o bollitura si trasforma in anemonina che è una sostanza
assolutamente innocua. Presenta inoltre saponine, materie resinose, pectine,
fitosterolo.
Sempre in piccole dosi, in cucina, la Vitalba può essere utilizzata in cucina per
preparare frittate minestre e zuppe.
In passato le piccole foglie venivano utilizzate per preparare cataplasmi per la cura
della sciatica della gotte e dei reumatismi mentre le foglie essiccate venivano
utilizzate per preparare un infuso ad azione diuretica e i germogli, in infuso, come
purgante e per curare infiammazioni, depressione e amnesie.
Oggi molto raramente viene usata a scopo terapeutico poiché in dosi eccessive il
contenuto di saponine e alcaloidi la rendono una pianta irritante e caustica.
Non dimentichiamo una cosa molto importante, che nonostante la sua potenziale
tossicità rientra nella lista dei Fiori di Bach.

Impieghi di Clematis Vitalba in sopravvivenza e bushcraft

La Vitalba presenta una parte esterna legnosa e rigida ed una parte interna più
morbida e flessibile. Affinché possa diventare un materiale intrecciabile, bisogna
rimuovere la parte esterna.
Se la liana ha un anno, questa operazione si esegue facilmente facendo leva con il
dito nella parte centrale a due nodi della liana, spaccando la parte rigida e
rimuovendola e, successivamente, pulendo i nodi anche con l’aiuto di un coltello.
Se le liane sono più vecchie, è necessario bollirle per poi poterle spelare agevolmente
dalla parte esterna.
Si ottengono lunghi cordoni, da arrotolare su se stessi e mettere a seccare, in un
luogo asciutto ed areato.
Si può anche mettere a seccare la liana prima di ripulirla dalla parte esterna e
successivamente farla bollire per poi sbucciarla.

2,644 Clematis Seed Royalty-Free Photos and Stock Images | Shutterstock

Curiosità sulla Clematis Vitalba

Veniva chiamata anche “Erba dei Pezzenti” perché in passato veniva utilizzata dai
mendicanti per provocarsi ferite e lacerazioni per poter scatenare la compassione dei
passanti e poter ricevere maggiori offerte.
Oppure veniva usata come surrogato del tabacco, cosa che oggi è molto sconsigliata.

Dizionario dei termini tecnici utilizzati

Di seguito potete trovare qualche spiegazione su alcuni termini più tecnici che ho utilizzato:
SAPONINE: Le saponine sono contenute in centinaia di piante e sono
così abbondanti da raggiungere anche il 30% del peso secco della pianta.
Sono in grado di abbassare la tensione superficiale in soluzioni acquose e sono capaci
di formare soluzioni colloidali schiumeggianti, quindi si possono usare come
emulsionanti.
Possono essere molto pericolose: l’iniezione per via parenterale determina emolisi mentre l’assunzione per via orale non produce quest’effetto velenoso.
ALCALOIDI: Gli alcaloidi sono composti organici azotati da utilizzare con estrema
cautela in quanto hanno effetti sia deprimenti, sia eccitanti e, agendo direttamente sul
sistema nervoso, possono produrre effetti molto pericolosi.
CATAPLASMA: preparazione molle ottenuta da decotti di erbe o di farine di semi,
cortecce e radici che veniva applicata su una parte del corpo ed aveva effetti
cicatrizzanti, emollienti ed antinfiammatori.
SEPALI PETALOIDI: E’ una parte del fiore in cui la corolla è composta da petali
separati tra di loro.
ACHENI: Frutto secco con un solo seme, con parete coriacea (aspetto e consistenza
simile al cuoio) aderente al seme, ma non saldata a esso (per es. la castagna).

Il rovo Selvatico

Il Rovo selvatico o Rubus ulmifolius

Rubus fruticosus (Rovo), pianta da frutto della famiglia delle Rosaceae
Potrei parlare per ore di questa pianta commestibile dalle mille proprietà, per molti ancora
sconosciute, ma cercherò di limitarmi a discuterne in queste poche righe.

Classificata nella famiglia delle Rosaceae è molto diffusa in tutta Italia poiché tende a crescere molto rapidamente, infestando boschi, sentieri e tutte le zone incolte. Ama le zone soleggiate e poco l’ombra, quindi, come la Clematis Vitalba riesce a formare grandi grovigli che soffocano la vegetazione intorno. Molto difficilmente si riesce ad estirparla o tagliarla, addirittura è in grado di germogliare nuovamente e rapidamente anche dopo grandi incendi.

I suoi rami possono arrivare ad una lunghezza di 6mt e si presentano in modo diverso secondo l’età, più legnosi e ricurvi quelli dell’anno precedente, mentre quelli del nuovo anno, hanno un portamento eretto e più sottile ma entrambi muniti di robuste spine.I rami dell’anno precedente sono quelli dove ci sarà la fioritura e la fruttificazione e sono destinati a seccarsi l’anno successivo.

I fiori generalmente sono di colore bianco o rosa e sono formati da cinque petali riuniti in infiorescenze e li troviamo sulla parte alta del ramo formando strutture piramidali.
La fioritura avviene all’inizio dell’estate quando le api, attratte dal loro profumo intenso e dal nettare dolciastro, ne fanno banchetto, preparandosi per la produzione del miele.

Dopo la fioritura, tra agosto e settembre, possiamo godere delle More, frutto acidulo rosa scuro e rosso quando ancora non ha raggiunto la piena maturazione ma che, una volta pronto, ha una colorazione nero tendente al violaceo con un sapore molto più gradevole.

Le foglie sono composte da cinque foglioline con margine dentellato. Nella parte inferiore troviamo una sottile peluria di colore bianco-argenteo e piccole spine lungo il picciolo e lungo le nervature.

Ora che abbiamo visto come riconoscerla e dove trovarla, parliamo più nello specifico dei suoi principi attivi e delle molteplici proprietà tipici di questa pianta selvatica.

Le More e tutta la pianta sono un concentrato di antiossidanti, fra cui: antocianine, catechine, tannini, quercetina, acido gallico che contrastano l’azione dei radicali liberi. I tannini hanno azione antinfiammatoria e vasocostrittrice, cioè restringono i vasi sanguigni accelerando la guarigione di eventuali ferite. Ricca di Vitamina C, anch’essa un potente antiossidante che svolge funzioni importanti in processi fisiologici, fra cui la risposta immunitaria. Contiene vitamina A, coinvolta nei processi della visione, vitamina E che protegge la pelle e vitamina K, importante per la salute delle ossa e della coagulazione sanguigna.
Anche le vitamine del gruppo B sono ben rappresentate, fra cui l’acido folico (il loro consumo è consigliato in gravidanza). Ricca di fibre, sia solubili che insolubili; fra le fibre solubili troviamo la pectina, che aiuta a ridurre
i livelli di colesterolo nel sangue e coadiuva i processi digestivi, oltre che favorire l’assorbimento
del glucosio e migliorare quindi i livelli di glicemia. Le fibre insolubili invece facilitano invece il transito
intestinale e danno un senso di sazietà. Non mancano i Sali minerali con un alto contenuto di rame, minerale importante per il metabolismo delle ossa e dei globuli rossi e bianchi. Anche magnesio, calcio, ferro, zinco e manganese sono presenti. Non dimenticando poi le proprietà diuretiche, grazie al buon contenuto di potassio e di acqua (88%), conferiscono proprietà idratanti e depurative.

Come abbiamo visto in precedenza possiamo utilizzare praticamente tutte le parti della pianta: radici, foglie, frutti e germogli; vediamo come utilizzarli al meglio.

I frutti oltre ad essere consumati freschi possono essere utilizzati per fare marmellate, macedonie,
guarnizione per dolci o yogurt, gelati ma anche per la preparazioni di succhi, sciroppi, vini
aromatizzati, grappe e acquaviti.
Con i germogli possiamo fare risotti, frittate, bevanda ai germogli ma anche un decotto di rovo
aggiungendo anche le foglie. Grazie, infine, alle proprietà astringenti può essere utilizzato per fare
gargarismi per curare faringiti e mal di gola. Insomma, chi ne ha più ne metta.

Impieghi survival e bushcraft

Utilissima in natura così come in fitalimurgia, infatti dai suoi rami, possiamo estrarre della fibra vegetale, che dopo essere stata adeguatamente lavorata ci permette di ottenere un ottimo cordame resistente.
Il periodo ottimale per la raccolta è la primavera e l’inizio dell’estate quando i rami sono verdi e ancora non molto legnosi. Recidiamo il fusto il più possibile vicino alla base in modo da ricavare un pezzo più lungo possibile, puliamo il ramo togliendo tutte le spine e le foglie.Un consiglio che posso darvi è di iniziare dall’apice raschiando verso il basso, verranno via più facilmente poiché è la direzione opposta, sia delle spine che delle foglie, e mi raccomando, per fare questa operazione utilizzate dei guanti ben spessi e soprattutto il dorso del coltello e non il filo.Una volta tolto il tutto iniziamo a lavorare togliendo molto delicatamente la parte esterna della fibra per poi arrivare al cuore del fusto. Per fare questa operazione ci servirà un ciocco di legno che utilizzeremo per picchiettare su tutta la lunghezza in maniera che le fibre si dividano tra loro. Successivamente a questa operazione la parte legnosa verrà via quasi naturalmente lasciando la fibra, che poi effettivamente lavoreremo, per ottenere il cordame. A questo punto prendiamo le fibre ricavate, cerchiamo il centro, facciamo un’asola e iniziamo ad intrecciarle per qualche giro in senso orario e poi cambiamo girando in senso antiorario per tutta la lunghezza. In questo modo ricaviamo un cordino molto resistente, tra i più resistenti che possiamo produrre in ambienti outdoor.

Curiosità

Le More vengono utilizzate per la preparazione di tinture naturali per tessuti.
Raccogliendo il frutto ad inizio autunno, possiamo realizzare colori che vanno dal lavanda chiaro al blu grigio, mentre con le foglie possiamo creare tonalità dal giallo-verde al petrolio carico e grigio scuro.
Molto utilizzata anche per fare coloranti alimentari naturali. Venivano utilizzate anche in alcuni riti pagani per il culto di alcune divinità.

Poi ci sono gli usi magici.
Un cespuglio di rovi che forma un arco naturale è un grande rimedio curativo.
In una giornata di sole scuotetelo avanti e indietro per tre volte, cercando di tenere il più possibile la direzione est-ovest, scompariranno i foruncoli e i punti neri, reumatismi e tossi convulse.
Le foglie e le more sono adoperate nei riti di ricchezza, i cespugli di more sono protettivi.

La pianta era adoperata per curare le scottature, vediamo come!
Si immergevano nove foglie di rovo in acqua di sorgente e si applicavano poi con delicatezza sulle
bruciature ripetendo per ventisette volte (tre per ogni foglia) le seguenti parole magiche: “Tre donne
vennero dall’Est./Una col fuoco e due col ghiaccio./Via il fuoco, che rimanga il ghiaccio”.
Era una invocazione a Brigitte, dea celtica della poesia e della salute.

Tecniche di Sopravvivenza: il fuoco Dakota (o Dakota Fire Hole)

E se ti dicessi che potresti accendere un fuoco che solo tu potresti vedere? Ogni eventuale passante sarebbe assolutamente ignaro sia di te che del tuo fuoco.

Stiamo parlando del Dakota Fire Hole ..il fuoco “tattico” per eccellenza in grado di farti sparire ( e rimanere riscaldato) alla vista degli altri in una tipica situazione S.H.T.F. La buca per il fuoco del Dakota è un fuoco tattico che viene spesso utilizzato anche dai militari degli Stati Uniti. La fiamma produce una scarsa luminosità, fumo ridotto ed è più facile da accendere in presenza di venti forti.

Seguiremo i vari passaggi che dovrai compiere per costruire il tuo fuoco Dakota ed ovviamente impareremo quali strumenti sono necessari per raggiungere questo obiettivo.

 
Costruire il Dakota Fire Hole : il fuoco invisibile e senza fumo!

Bene! Cosa ci servirà per creare un Dakota Fire Hole?

Essendo fondamentalmente un “semplice” buco nel terreno la creazione del Fuoco Dakota non necessita di nessuno strumento. O meglio: se tu avessi una piccola pala tattica con te le operazioni di scavo sarebbero decisamente piu veloci.. ma la pala non è assolutamente necessaria: possiamo sempre utilizzare un semplice palo appuntito per aiutarci nello scavo o le stesse mani… ma in fondo..perchè dovresti volerlo fare a mani nude?

 

Tutorial Dakota Fire Hole

Step 1: Scavare le buche

(E attenzione che qui scopriamo una cosa importantissima!)

Ovviamente, il primo passo è scavare una buca profonda: i Marines Americani parlano di “due o tre piedi di profondità e di circa 1,5 piedi di larghezza” e qui incontriamo subito la prima sorpresa rispetto all’idea generale del dakota fire hole che hanno tante persone improvvisate che non hanno mai affrontato la pratica di questa tecnica.

3 piedi circa di profondità infatti corrispondono, nel nostro sistema metrico decimale, a ben 90 CENTIMETRI ! Ho personalmente visto corsisti ( ma anche persone che generalmente dovrebbero essere più preparate in materia) fare fuochi Dakota profondi meno di 50 centimetri: questo comporta l’errore di fondo che il fuoco non rimanga del tutto sotto la linea del terreno e questo vuol dire che prendendo molta piu aria di quel che dovrebbe: il fuoco brucerà molto più carburante rispetto ad un Dakota Fire fatto bene il fuoco, che dovrebbe essere una tecnica survival stealth è molto piu visibile il fuoco fa più fumo il fuoco sviluppi meno calore vi obbliga a cucinare senza l’adeguato spazio verticale che un Dakota Hole fatto bene vi darebbe

Una ottima regola da tenere presente è semplicemente che più grande sarà il fuoco che vuoi costruire, più profondo e più ampio dovrà essere il buco : personalmente direi che il dakota hole dovrebbe essere ampio tanto da poter ospitare comodamente un normale fuoco senza dover stare troppo a combattere per spezzare i rami che non entrano nel buco.

 

Step 2: come e in che direzione scavare la seconda buca

Passiamo ovviamente alla seconda buca da fare a circa 30 centimetri di distanza dalla prima.
La buca sarà più piccola a chiaramente non faremo una buca parallela e profonda quanto la prima ma essa scenderà in diagonale, fino alla base del primo buco. Lo scopo di questo tunnel è ovviamente quello di portare aria alla base del fuoco situato nel primo.
Ma in che direzione va scavato il tunnel? Attenzione a non scavare il tunnel di raccordo in una “direzione a caso” : il nostro scopo è ovviamente ottimizzare il flusso d’aria che riceve il fuoco ed è per questo che scaveremo il tunnel a favore di vento in modo che si incanali correttamente verso le braci ardenti.

E se non c’è vento?  Un buon “trucco” per sapere da dove spira il vento anche nel caso in cui
esso sia talmente leggero quasi da non sentirlo è quello di inumidirsi ila punta del dito ed esporlo all’aria: sentiremo immediatamente una parte del dito più fredda rispetto all’altra. Immaginate la punta del dito come se fosse il fuoco e la direzione in cui sentite il dito freddo come quella in cui scavare la fossa a 30 centimetri di distanza. Fatto questo avremo una via di entrata “obbligata” per l’aria dal momento che il calore e le fiamme si diffondono dal buco più grande e questo non permetterà all’ossigeno di entrare dall’alto.

Sicurezza ulteriore del fuoco Dakota: questo buco secondario del Dakota Hole ti permetterà di soffiare ossigeno nel fuoco senza correre il rischio di bruciarti la faccia soffiando nel fuoco principale.

Dakota Fire Hole

 

Step 3: Allargare il tunnel

Una volta scavato il tunnel ed aver raggiunto il fuoco principale, ti accorgerai di aver scavato un tunnel largo quanto il tuo braccio piu o meno: ovviamente ciò è del tutto normale. Da ora in poi dovrai dedicarti ad allargare, lavorando sia da un lato che dall’altro, fino a che il tunnel non sia largo almeno il doppio del tuo braccio.
Ricorda che più grande è il tunnel, più ossigeno può entrare e questo significa avere un fuoco che ha sempre ossigeno da bruciare e che quindi non si spegna facilmente!

 

Step 4: Accendere il fuoco Dakota fire hole!

Passaggio 4: ora che il tunnel è completo, è tempo di accendere il fuoco! .
Si fa ovviamente come abbiamo sempre fatto con un fuoco tradizionale. Magari una piattaforma di legno aiuterà nei primi momenti prima che il fuoco , col tempo , la renderà uno strato di braci fumanti. Ricorda di utilizzare materiali secchi morti e accendi il fuoco come se fossi normalmente in superficie.

 

E’ ovviamente possibile cucinare sul fuoco Dakota !
Ti basterà avere l’accortezza di mettere spessi rami verdi sulla parte superiore del foro primario o bloccandoli sul lato delle pareti. I materiali verdi non bruceranno in fretta ed eviteranno che le tue pentola cadano nel fuoco.

Tosse e febbre? Ci pensa il cipresso!

Un rimedio naturale contro l’influenza di stagione

Si sa, più si entra nella stagione fredda e più si incombe nel pericolo di cadere vittime di tosse, faringite, tracheite e febbre.

Merito anche del tempo che sicuramente in questo ultimo periodo ci ha abituati a sbalzi di temperatura buschi ed intemperie che non fanno altro che minare la nostra salute.

Cosa fare? Se le farmacie sono prese d’assalto fate un salto presso l’erboristeria più vicina a casa vostra dove potrete trovare un buonissimo rimedio contro i sintomi di influenza e tosse.

Il cipresso viene infatti considerato ottimo rimedio naturale balsamico, attraverso un decotto molto semplice da preparare seguendo un metodo del tutto tradizionale.

Occorrono 200 ml di acqua fredda in cui verranno versati 1 cucchiaio di raso di cipresso, foglie e rami e portare ad ebollizione. Richiede giusto 2 minuti dopodiché lasciare altri 5 minuti in infusione per poi filtrare e prima di berlo aggiungere 1 cucchiaio di miele almeno 2/3 volte al giorno.

Erbacce commestibili: 10 erbe spontanee da raccogliere e mangiare

 

In primavera e con l’estate dietro l’angolo, le belle giornate, il sole e le passeggiate si portano dietro la voglia irrefrenabile di raccogliere le profumatissime erbe ed i fiori che con i loro sfavillanti colori ricoprono prati verdi in campagne e vallate. Anche per quelli di noi un po’ meno esperti nel riconoscimento botanico è comunque una meravigliosa opportunità, basta organizzarsi con una delle tante guide tascabili, un paio di forbici ed un sacchettino di stoffa o meglio ancora un cestino per regalarsi gioia e soddisfazione che certo un po’ di insicurezza non può di sicuro impedirci di provare visto che per quella il rimedio è lì sotto i nostri occhi: delle belle immagini e delle dettagliate descrizioni!

 La raccolta di erbe spontanee commestibili poi ci permette di riappropiarci del valore della natura ricordandoci che le coltivazioni sono arrivate soltanto dopo e che una volta, tanto tempo fa i nostri avi raccoglievano quel che il territorio nel quale vivevano dava loro senza necessità di coltivare acri e acri monocoltura, evitando così di intaccare la biodiversità tanto importante per ogni specie su questo pianeta.

Proprio per questa ragione se tra le piante che descriverò si andrà ad intaccare l’esistenza della pianta stessa fornirò con piacere anche pillole di consigli su come non intaccarne invece la sua esistenza come specie sul territorio.

La raccolta di piante edibili spontanee poi ci ricorderà che una volta erano le stagioni che regolavano l’alimentazione e che bisognava essere previdenti e come delle brave formichine organizzarsi per i tempi di minore abbondanza.

Noi però pur non avendo la necessità di far scorte per l’inverno possiamo certamente ricavarne ottime erbe spontanee sia da mangiare crude in insalate che scottate leggermente a vapore o magari aggiunte a farinate, frittate o zuppe o al massimo per qualcuna si può sempre decidere di essiccarne foglie, fiori o semi.

Infine un suggerimento: se avete dubbi sul riconoscimento di una certa pianta fatele una bella fotografia e magari tagliatene una parte, conservatela e così una volta giunti a casa potrete cercarle con più criterio il nome; inoltre ricordatevi che il riconoscimento botanico non solo non è una cosa che si impara in dieci minuti ma deve essere molto accurato in quanto esistono piante molto simili ma con effetti totalmente opposti (è il caso di molte specie che hanno “sosia” tossiche) ma non preoccupatevi molto spesso capita per piante appartenenti alla stessa famiglia ma in ogni caso vale sempre la regole che se si hanno dubbi meglio non raccoglierle. Un trucchetto poi è imparare a riconoscere una certa pianta aspettando che sia fiorita, questo perché il fiore aiuta parecchio nel riconoscimento ed è per questo che è importante andare per erbe in questo periodo, più che per raccogliere tutto quello che vorremmo per imparare a riconoscerle e quindi poterle raccogliere l’anno prossimo con facilità!

Inoltre se posso suggerirvi un metodo che a me ha insegnato molto è quello della creazione di un erbario personale: io il mio primo erbario lo creai con l’aiuto di mia zia all’età di 8 anni e da quel giorno non smisi più. Ora gli erbari sono diventati 2, molto grandi e catalogati per benino ed a breve diventeranno 3. Non è solo un modo magnifico per approcciarsi alla conoscenza ma è anche molto utile quando si cresce perché si comprende che la natura non è fatta solo da quelle 10 varietà tra frutta e verdura che vengono coltivate in tutto il mondo a scopo commerciale ma che là fuori tra prati e campi c’è tutta una varietà di specie ricche e molto più adattate di quello che invece noi immaginiamo.

Esistono poi addirittura corsi di riconoscimento di erbe spontanee, perciò se la cosa vi interessa un’altro buon metodo è quello di frequentarne uno.

Le più comuni, sicure e facili da riconoscer sono sicuramente, secondo la mia esperienza, le 10 piante che mi accingo a descrivervi ma prima ricordatevi sempre che per non sbagliare dovete sempre fare riferimento al nome latino e non a quello volgare, inoltre iniziate ad imparare a riconoscerne due o tre prima di passare a riconoscere le altre:

 

1) La cicoria vera (Cichorium intybus)

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E’ una pianta comunissima in pianura, fiorisce in estate e la raccolta avviene prima della fioritura; di essa si mangiano sia le foglie (crude o cotte) che i giovani germogli in insalata preparando le cosiddette “puntarelle alla romana” ovviamente per chi è vegan o vegetariano sostituendo le povere acciughine con dei deliziosi capperi salati.

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Impossibile non ricordare poi che una volta con la radice di cicoria veniva preparato un ottimo sostituto del caffè.

 

2) La bardana (Arctium lappa)

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E’ molto comune lungo i fossati ma anche in montagna a quote basse. Fiorisce in estate, si raccoglie e si usa la radice, lo stelo fiorale, i piccioli e le foglie. Una volta raccolta la radice è buona norma spargere tutt’intorno alla zona i semi (staccandoli dalla pianta). La radice è grossa nelle piante di 2-3 anni mentre nelle piante più piccine è bene raccogliere solo le foglie e i piccioli in quanto la radice che troveremmo sarebbe davvero troppo piccina. La radice va cotta a lungo magari a vapore e quindi condita con del semplice olio evo. Lo stelo fiorale (prima della fioritura) va pulito dalle foglie e dalla parte fibrosa esterna e quindi va cotto anch’esso. Infine i piccioli possono essere cotti e fritti con della semplice pastella di farina di ceci e birra ghiacciata. Il suo sapore ricorda molto il carciofo.

 

3) La carota selvatica (Daucus carota)

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E’ molto comune soprattutto in luoghi pietrosi ed spesso presente in grandi distese; fiorisce in estate. Si mangia sia la radice a fittone che le foglie, sia crude in insalata che aggiunte a zuppe o minestre. E’ bene quindi se si sceglie di raccoglierne le radici lasciare sempre qualche piantina nella zona conservandone così la sua presenza sul territorio.

 

4) Il dente di leone o tarassaco (Taraxacum officinale)

2_tarassaco

Le sue foglie amare e con alto contenuto di ferro sono commestibili e ottime. Le rosette delle foglie basali si mangiano cotte e condite con un goccio di olio evo.

 

5) L’ ortica (Urtica dioica)

Stinging Nettle (Urtica dioica) in Ontario

Forse la pianta più comune in orti e prati, a ridosso di muri ed in zone molto assolate, fiorisce in estate. Il suo sapore ricorda gli spinaci, ha un alto contenuto di vitamina C, ferro, mucillagini; va consumata cotte in insalata, o aggiunta a zuppe o minestre o anche usata per ripieni di ravioli o in farinate e frittate.

 

6) La piantaggine (di piantaggine-Plantago- ne esistono tantissime specie diverse)

4d_piantaggine_lanceolata

Diffusissima ai bordi dei sentieri, nei prati di montagna e nelle zone incolte; è ottima mangiata cotta in associazione ad altre erbe o usando le sue foglie più giovani crude raccogliendo le rosette più tenere da fare in insalata oppure in farinate o frittate. Essendo una perenne è possibile raccoglierla tutto l’anno e data la sua diffusione non c’è timore di raccoglierne in quantità tale da comprometterne la sopravvivenza.

 

7) La borragine (Borago officinalis)

Borragine | Agricola Pirola

E’ una specie annuale che vive lungo i margini delle strade di campagna e dei campi non coltivati. Si usa tutta la pianta: le foglie più tenere si raccolgono prima della fioritura e si mangiano lessate e condite, oppure crude in insalata o ancora usate in risotti, ravioli, farinate o frittate oppure le più grandi intere impanate e fritte. I fiori di borragine si raccolgono insieme ai nuovi germogli e vengono impiegati crudi per insalate miste o per decorare i piatti.

Può essere essiccata per l’inverno.

 

8) La malva (Malva sylvestris)

Malva: una pianta polivalente - Accademia dei Georgofili

La malva selvatica è molto comune, utilizzata soprattutto per le vie respiratorie e le mucose, fiorisce in primavera ed autunno; si mangiano le foglie cotte aggiunte insieme ad altre erbe in zuppe oppure i fiori e le foglie giovani crude in insalata.

 

9) Il finocchio selvatico (Foeniculum sylvestre)

Specie Info

Fiorisce in luglio e agosto, si consuma sia crudo in insalata che cotto in stufati e come verdura di accompagnamento a secondi piatti. I germogli teneri si usano nelle minestre oppure si mangiano crudi in pinzimonio. Inoltre è possibile raccogliere i semi in tarda estate per farne liquori o tisane.

 

10) La margherita pratolina (Bellis perennis)

bellis perennis

Le margheritine sono comunissime, si utilizzano le foglie più tenere, raccolte prima della fioritura, nelle insalate o nei minestroni, unite alle altre verdure. I fiori di margheritina stimolano la diuresi ed hanno un’ azione disintossicante: per potenziarne le proprietà depurative, l’ideale è miscelarli ad altre piante spontanee come tarassaco, ortica e cicoria.

Sopravvivenza: Come costruire un Igloo

Spesso, e non a torto, associamo l’idea del freddo più intenso a poche immagini stereotipate, quelle di un mondo tanto diverso dal nostro. Gli orsi polari, i pinguini, il ghiaccio perenne. E ovviamente ci vengono anche in mente gli Eschimesi, gli uomini del freddo che vivono nelle loro case di ghiaccio, i famosi igloo. Difficilmente ci capiterà mai di trovarci a vivere in una dimora del genere, che pare più un freezer. Ma costruire un vero igloo (magari con gli amici) può essere un passatempo davvero divertente quando, durante la stagione invernale, abbiamo a disposizione un paio d’ore.

Occorrono:
una pala
un contenitore quadrato in plastica
guanti da neve
un coltello

Per prima cosa abbiamo bisogno di tanta neve. anche se sembra ovvio, meglio precisare, non si sa mai. Una parte del nostro cortile ancora intonsa dopo una lunga nevicata andrà bene. Dopodiché si traccia un cerchio sulla neve tanto grande quanto lo sarà il pavimento dell’igloo. Premere con i piedi sul fondo in modo da ottenere una distesa di neve sufficientemente pressata, sulla quale poseremo i blocchi.

Quindi poseremo la prima pietra. Ma quale pietra? E’ proprio di ghiaccio. In ogni caso, con una pala e dei guanti procediamo alla raccolta della neve che verrà poi posta in un contenitore di plastica. Va bene uno per alimenti a forma di parallelepipedo. La neve deve essere compressa in modo da formare un blocco solido che useremo come mattone (creazione blocchi di ghiaccio).

Poi formeremo un filare con questi blocchi che seguirà l’andamento del cerchio  Unire i blocchi tra loro utilizzando come “cemento” della neve soffice. Perché gradualmente le pareti si restringano, tagliare il filare in modo che si formi una spirale  Continuare la costruzione passo dopo passo aggiungendo sempre più filari.

Una volta che le pareti si restringono, diminuire lo spessore dei blocchi. Chiudi poi l’igloo con una lastra di neve pressata che fungerà da chiave di volta. Fissare questo ultimo blocco con estrema delicatezza. E’ consigliato mettere la lastra dall’interno. E’ buona norma, infatti, che uno dei costruttori si ponga dentro l’igloo in modo da poter poi sistemare gli ultimi blocchi dall’interno e non dall’esterno. (Chiusura dell’igloo).

Ora, però, abbiamo murato il nostro amico nella fortezza di neve. Per evitare che diventi un ghiacciolo egli aprirà dal di dentro con un coltello una porta alla base dell’igloo. Dovrà essere larga abbastanza da far passare un uomo accovacciato. Quando sarà necessario chiudere la porta si tirerà il blocco contro la parete in modo che rimanga un piccolo spazio per l’aria. Procediamo ora alla rifinitura della struttura tappando le fessure tra i vari blocchi. Cosa ne pensi?

Se arrivi fino a questo step complimenti! Vuol dire che hai completato con successo il tuo igloo! Non preoccuparti perciò se non hai i soldi per pagare l’affitto e vorresti magari lasciare la casa dei tuoi genitori. Adesso di casa ne hai una…almeno finché non si scioglie.

 

Come costruire un Igloo

di Edoardo Bitti difficoltà: difficile letto: 97 volte

Come costruire un Igloo Spesso, e non a torto, associamo l’idea del freddo più intenso a poche immagini stereotipate, quelle di un mondo tanto diverso dal nostro. Gli orsi polari, i pinguini, il ghiaccio perenne. E ovviamente ci vengono anche in mente gli Eschimesi, gli uomini del freddo che vivono nelle loro case di ghiaccio, i famosi igloo. Difficilmente ci capiterà mai di trovarci a vivere in una dimora del genere, che pare più un freezer. Ma costruire un vero igloo (magari con gli amici) può essere un passatempo davvero divertente quando, durante la stagione invernale, abbiamo a disposizione un paio d’ore.

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Occorrono:
una pala un contenitore quadrato in plastica
guanti da neve un coltello

Scopri come fare:

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    Per prima cosa abbiamo bisogno di tanta neve. anche se sembra ovvio, meglio precisare,non si sa mai. Una parte del nostro cortile ancora intonsa dopo una lunga nevicata andrà bene. Dopodiché si traccia un cerchio sulla neve tanto grande quanto lo sarà il pavimento dell’igloo. Premere con i piedi sul fondo in modo da ottenere una distesa di neve sufficientemente pressata, sulla quale poseremo i blocchi.

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    Come costruire un Igloo Quindi poseremo la prima pietra. Ma quale pietra? E’ proprio di ghiaccio. In ogni caso, con una pala e dei guanti procediamo alla raccolta della neve che verrà poi posta in un contenitore di plastica. Va bene uno per alimenti a forma di parallelepipedo. La neve deve essere compressa in modo da formare un blocco solido che useremo come mattone (creazione blocchi di ghiaccio)
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    Come costruire un Igloo Poi formeremo un filare con questi blocchi che seguirà l’andamento del cerchio  Unire i blocchi tra loro utilizzando come “cemento” della neve soffice  Approfondimento Come costruire una cuccia a forma di igloo (clicca qui) Perché gradualmente le pareti si restringano, tagliare il filare in modo che si formi una spirale  Continuare la costruzione passo dopo passo aggiungendo sempre più filari.
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    Come costruire un Igloo Una volta che le pareti si restringono, diminuire lo spessore dei blocchi. Chiudi poi l’igloo con una lastra di neve pressata che fungerà da chiave di volta. Fissare questo ultimo blocco con estrema delicatezza. E’ consigliato mettere la lastra dall’interno. E’ buona norma, infatti, che uno dei costruttori si ponga dentro l’igloo in modo da poter poi sistemare gli ultimi blocchi dall’interno e non dall’esterno. (Chiusura dell’igloo)
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    Come costruire un Igloo Ora, però, abbiamo murato il nostro amico nella fortezza di neve. Per evitare che diventi un ghiacciolo egli aprirà dal di dentro con un coltello una porta alla base dell’igloo. Dovrà essere larga abbastanza da far passare un uomo accovacciato. Quando sarà necessario chiudere la porta si tirerà il blocco contro la parete in modo che rimanga un piccolo spazio per l’aria. Procediamo ora alla rifinitura della struttura tappando le fessure tra i vari blocchi.Cosa ne pensi?
    Se arrivi fino a questo step complimenti! Vuol dire che hai completato con successo il tuo igloo! Non preoccuparti perciò se non hai i soldi per pagare l’affitto e vorresti magari lasciare la casa dei tuoi genitori. Adesso di casa ne hai una…almeno finché non si scioglie.
Stampa la guida 24 Agosto 2012, 19:45

E’ periodo di raccolta !!! Tarassaco: Proprietà e Benefici

Il tarassaco è una pianta erbacea perenne diffusa un po’ ovunque e cresce fino ai 1.800 metri di altezza; il suo nome scientifico è Taraxacum officinale, ed è conosciuto anche col nome di dente di cane o dente di leone.

Il tarassaco cresce prevalentemente nei prati e si riconosce facilmente dai suoi fiori giallo intenso che lasciano presto il posto a globi soffici e piumosi chiamati soffioni. Il periodo migliore per la raccolta del tarassaco è a febbraio, oppure a settembre, prima che la pianta fiorisca, nel pieno della sua tenerezza e delle sue proprietà salutari.

Uno dei modi più consueti per consumare il tarassaco è in insalata con dell’ottimo olio extravergine di oliva, sale e aglio crudo tritato finemente.
Il tarassaco è ricco di inulina, contiene olio essenziale, tannino, flavonoidi, vitamina A e C, sali minerali, acido caffeico e cumarico, oltre a una mucillagine altamente idrofila.

Proprietà curative e benefici del Tarassaco:

Il tarassaco presenta varie proprietà farmacologiche, grazie soprattutto alle sostanze amare che caratterizzano anche il suo gusto: tarassicina e inulina. Molto note le sue proprietà diuretiche tanto da essere chiamato con nome piscialetto nella tradizione contadina.

Oltre alle sue proprietà diuretiche il tarassaco è in grado di favorire l’aumento di bile e il suo passaggio dal fegato all’intestino, ma non solo, ha anche proprietà antinfiammatorie, purificanti, e disintossicanti nei confronti del fegato. Gli effetti diuretici e l’abbondanza di potassio possono contribuire a regolare la pressione arteriosa e la quantità di fluidi corporei.

Recente è la scoperta riguardante i calcoli biliari; il tarassaco è in grado di influire, non sul calcolo già esistente, ma bensì sulla predisposizione che l’organismo ha alla formazione di calcoli.
Decotto di Tarassaco
Il decotto viene consigliato per dare maggiore incisività agli effetti diuretici del tarassaco.

Metodo di preparazione: Prendere 15 grammi di radici essiccate e farle bollire per circa cinque minuti in 200 ml. di acqua, lasciare riposare il tutto per altri cinque minuti, filtrare e bere.
Consiglio
Se decidete di dedicarvi alla raccolta del tarassaco si consiglia vivamente di farlo lontano da strade molto frequentate e centri abitati, questo per evitare la possibilità, per altro neanche molto remote, di mangiare verdura inquinata. Molto spesso i prati nelle campagne dei centri abitati vengono concimati con sostanze altamente dannose all’organismo umano. Fare attenzione.

Curiosità:

Alcuni studiosi fanno risalire l’origine della parola tarassaco a due termini greci: taraxis, che significa squilibrio e akas, che significa rimedio; già dal nome possiamo comprendere quali siano le proprietà fondamentali della pianta.
Interessanti i vari nomi con cui il tarassaco è conosciuto: dente di cane, dente di leone, piscialetto, stella gialla, capo di frate, girasole dei prati, cicoria selvatica, soffione, cicoria burda, barba del Signore e radicchiella.
Le proprietà e le virtù di questa formidabile pianta vengono scoperte solo nel XX secolo tanto che la terapia a base di tarassaco viene denominata “tarassacoterapia”

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